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Controllare il pc? ll datore può

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Per la Suprema corte il Jobs act fa da spartiacque. Non è necessario l’accordo coi sindacati. È lecito tracciare la navigazione durante l’orario di lavoro

Più difficile «imboscarsi» a lavoro: giocare col pc aziendale costa molto caro. Distrarsi navigando su internet, invece di lavorare, durante l’orario di servizio, infatti, può essere scoperto e provato più facilmente dal datore di lavoro. E di conseguenza sanzionato. Se la rete internet è dotata di un sistema di controllo informatico a protezione dell’azienda, i relativi dati raccolti possono essere utilizzati anche per verificare la diligenza del dipendente nello svolgimento del proprio lavoro, con tutti i risvolti disciplinari e di altra natura connessi.

A precisarlo è la Corte di cassazione nella sentenza n. 32760/2021, illustrando le diverse discipline che, in tema di «controllo a distanza dei lavoratori» (art. 4 della legge n. 300/1970) si sono succedete nel tempo: prima e dopo la riforma del Jobs Act.

Il caso

La vicenda che dà occasione alla Cassazione di specificare le regole in materia di controllo dei lavoratori nasce dal ricorso, accolto dal tribunale a Roma, con cui un dipendente di una società ha chiesto l’annullamento (e conseguente restituzione delle somme decurtate dallo stipendio) della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un giorno, comminatagli a seguito di contestazione avvenuta a febbraio 2012. Il tribunale ha ritenuto veri e provati i fatti storici (ossia che nel periodo dal 19 al 23 dicembre 2011 il dipendente aveva fatto un uso improprio del terminale assegnatogli per motivi di servizio, poiché risultava che aveva fatto una serie rilevante di collegamenti a siti di carattere ludico e commerciale durante lo svolgimento dell’ attività lavorativa, il tutto come riscontrabile dai controlli di sicurezza del sistema informatico); tuttavia, ha ritenuto che l’ attività di controllo del sistema informatico, in quanto utilizzabile per effettuare un controllo a distanza dell’ attività lavorativa, rientrasse nel novero di quelle condotte del datore di lavoro per le quali fosse necessario il previo accordo con le rappresentanze sindacali, ex art. 4 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970). Cosa che, invece, il datore di lavoro (la società) non aveva provveduto a fare. La sentenza, così, ha dovuto escludere che il comportamento addebitato al lavoratore potesse essere sanzionato dal datore di lavoro sulla base di informazioni e controlli ottenuti dai predetti sistemi di controllo, senza l’adozione delle garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori.


Avverso la decisione del tribunale, la società ha proposto appello censurandone le motivazioni ritenute carenti riguardo alla condotta tenuta dal lavoratore, cioè in violazione della politica aziendale di assoluto divieto di utilizzo di internet per finalità diverse da quelle aziendali. La società, inoltre, ha rimarcato che i controlli effettuati dal sistema informatico avevano il solo scopo di preservare il patrimonio aziendale e, in modo particolare, la rete, ma senza alcuna finalità di controllo dell’attività del lavoratore.

Pertanto, poiché si trattava di controlli cosiddetti «difensivi», cioè necessari alla salvaguardia del patrimonio aziendale, come tali erano fuori dall’ ambito di operatività del citato art. 4 della legge n. 300/1970. La Corte di appello di Roma, con sentenza 30 giugno 2017, ha rigettato il ricorso rilevando, tra l’altro, che la società non aveva fornito alcuna adeguata prova che i controlli sul pc del dipendente fossero strettamene funzionale alla salvaguardia del patrimonio aziendale e perché, inoltre, i dati in tal modo acquisiti erano stati illegittimamente utilizzati per contestare al lavoratore una violazione dell’obbligo di diligenza. Per la cassazione della sentenza di appello la società propone nuovo ricorso con due motivi, il primo dei quali riguarda i principi dello Statuto dei lavoratori (lamenta, cioè, che la sentenza ha erroneamente escluso il diritto del datore di lavoro di controllare il lavoratore ed esigere l’adempimento della prestazione lavorativa con lealtà e correttezza). È qui che la Cassazione coglie l’occasione per distinguere le due discipline (opposte) vigenti pro-tempore, in tema di «controlli sul lavoratore»: quella precedente alla riforma Jobs Act (dlgs n. 151/2015, in vigore dal 24 settembre 2015) e quella successiva. La disciplina «ante Jobs Act».

È la disciplina valevole per la sentenza in esame. Nel precedente quadro normativo, cioè fino al 23 settembre 2015, l’orientamento della Corte di cassazione (tra le sentenze, la n. 16622/2012 e la n. 19922/2016) evidenziava l’effettività del divieto di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, che richiedeva anche ai «controlli difensivi» l’applicazione delle garanzie dell’art. 4 della legge n. 300/1970. Con la conseguenza che, se per l’esigenza di evitare attività illecite o per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro può installare impianti e apparecchi di controllo che rilevino anche dati relativi all’ attività lavorativa dei dipendenti, questi dati, però, non possono mai essere utilizzati per provare l’inadempimento contrattuale dei lavoratori. Ne consegue che, nella fattispecie della sentenza in esame, i dati acquisiti dal datore di lavoro con i propri controlli difensivi non potevano essere utilizzati per provare l’inadempimento del lavoratore. A ciò la Cassazione aggiunge altro. Aggiunge che la società non aveva dato adeguata dimostrazione che il sistema di controllo posto in atto sulla rete aziendale fosse strettamente funzionale alla salvaguardia del patrimonio aziendale, e che, anzi, l’istruttoria aveva invece evidenziato che il sistema aziendale consentiva certamente di bloccare l’accesso a siti ritenuti pericolosi e a segnalarne altri senza necessariamente procedere al controllo sull’ utilizzo di internet da parte del personale che vi aveva accesso per scopi aziendali.


La disciplina «post Jobs Act». I fatti oggetto della sentenza in esame sono precedenti alla riforma del Jobs Act, cioè all’ entrata in vigore del dlgs n. 151/2015 che ha modificato l’ art. 4 dello Statuto dei lavoratori, stabilendo che «la disposizione di cui al comma 1 (gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’ attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale) non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze». In sostanza, pertanto, dopo la riforma del Jobs Act, cioè a partire dal 24 settembre 2015, gli elementi raccolti tramite tali strumenti possono essere utilizzati anche per verificare la diligenza del dipendente nello svolgimento del proprio lavoro, con tutti i risvolti disciplinari e di altra natura connessi.

In altre parole, fossero capitati oggi i fatti contestanti nel lungo contenzioso, l’avrebbe avuta vinta la società (e non il lavoratore).

( Articolo di Daniele Cirioni pubblicato su “Italia Oggi” )

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